III° Gemellaggio Napoli Club: tutti insieme per tirare “un calcio… alla violenza”!
Quando il mondo della violenza invade quello nostrano, quando al telegiornale le notizie hanno il volto della sofferenza, quando un ragazzo muore per seguire una partita di pallone, vuol dire che c’è qualcosa di sbagliato nel genere umano.
C’è, probabilmente, un cromosoma che segue un percorso proprio e che, insofferente, sfocia nella bestialità. A questo punto, lungi da fare la morale ai più, bisognerebbe intervenire. Non vogliamo analizzare lotte politiche o guerriglie tra Stati, partiamo dalle piccolezze, dallo sport.
E’ davanti agli occhi di tutti quanto accade quasi ogni domenica negli stadi italiani e non solo. La cattiveria repressa del tifoso da spranga e coltello si scaglia contro tutto e tutti. Citiamo, per esempio, quanto accaduto pochi giorni fa a Roma, invasa dagli hooligans olandesi, che hanno distrutto quanto incontravano per strada. Rispondere con la stessa spranga e lo stesso coltello non sarebbe costruttivo, costringerebbe anche noi a passare dalla parte del torto.
Nel nostro piccolo, come ci insegna il Napoli Club Aeclanum, possiamo manifestare la nostra rabbia tirando “Un calcio alla violenza”. Il calcio è quello tirato verso il pallone, è quello dello sport sano e pacifico.
Lo scopo è tornare alle situazioni primitive, quando il pallone univa. Per questo il Napoli Club Aeclanum di Mirabella ha imbandito una tavola piena di delizie nostrane e ha fatto accomodare accanto a sé i club partenopei di Piacenza, Baronia, Casal di Principe, Caserta, Modugno e Mantova. Non è una novità: il Gemellaggio Napoli Club è già alla sua terza edizione, questa volta avvenuta il 27 dicembre 2014, presso il ristorante “Cucchiarone”.
Questa volta la festa è stata ancora più ricca, grazie all’impegno del Presidente Donatello Izzo e del Vice Presidente Tino Sirignano e al sostegno degli organizzatori Giovanni D’Auria, Romano Capasso, Achille Rumolo e l’Associazione “Imbriani non mollare”, che da sempre, sull’esempio dell’ex calciatore Carmelo Imbriani, si muove per diffondere gli ideali di sport e amicizia.
Dopo la degustazione dei piatti tipici e le foto di rito, il gruppo di tifosi ha avuto modo di conoscere a fondo la città di Mirabella, visitando le sue bellezze, tra cui la Chiesa Madre e il Museo Civico del Carro di Paglia e dei Misteri di Cartapesta. Il tutto si è concluso presso il teatro comunale con la premiazione dei partecipanti, tra cui Alfonso De Nicola, medico sociale della Società Sportiva Calcio Napoli, Giovanni Esposito e Antonella Leardi, genitori di Ciro Esposito, il ragazzo napoletano ferito a Roma nell’agguato del 3 maggio 2014, e morto dopo cinquanta giorni di agonia.
Durante la giornata, “La Fenice” on-line ha avuto modo di intrattenersi con Antonella Leardi, la quale ci ha rilasciato una breve intervista.
Lei ha più volte ribadito il suo messaggio di non violenza. Eppure, a pochi mesi dalla morte di Ciro, c’è stato un altro brutto episodio, questa volta in Spagna: è stato picchiato e ucciso un tifoso 43enne del Deportivo, poco prima dell’inizio di una partita. A questo punto, la violenza deve essere combattuta alzando ancora di più la voce?
«Alzare la voce serve a ben poco. Anzi, si ottiene l’effetto contrario: si va ad istigare, un po’ come succede con i bambini quando una madre è troppo severa. La morte di Ciro non è stata voluta da Ciro, ma dal gruppo che ha organizzato l’agguato. Noi siamo portatori di pace, non possiamo comportarci come quei delinquenti, dobbiamo far sì che il nostro messaggio arrivi ovunque e lasci il segno. È quello che faccio con l’Associazione “Ciro vive”, ma non posso farcela da sola. Tutti insieme, con i giovani, con i bambini, con le associazioni, dobbiamo far arrivare la nostra iniziativa fino alle istituzioni, le uniche che possono prendere provvedimenti seri ed efficaci. Sta a loro reprimere la violenza, noi ci limitiamo ad unire persone, nel ricordo sereno di mio figlio».
Poco tempo fa Daniele De Santis ha scritto una lettera in cui confermava di aver sparato senza intenzione di uccidere. Come risponde a queste parole?
«Ho già speso troppe parole per questa persona. Quello che ha scritto nella lettera è una bugia. Io ho la testimonianza dei tifosi che, all’interno di un pullman, hanno assistito alla scena, e di mio figlio Pasquale, che mi ha spiegato com’è stato sparato Ciro. C’è un video che ha girato tutto il mondo e che mostra l’accaduto. Sappiamo, dunque, che mio figlio è stato picchiato dal gruppo che, una volta sentiti gli spari, ha cominciato a correre verso i tifosi del Napoli. Tutto è partito da quegli spari, la rabbia è stata fomentata dalla pistola di De Santis. Inoltre, non sempre viene detto che mio figlio era un grande lavoratore, spesso viene additato come delinquente solo perché viene da Scampia, e da madre fa male».
L’abbiamo vista più volte allo stadio San Paolo, anche oggi è qui nelle vesti di tifosa del Napoli. Cosa la spinge a seguire il Napoli? È un modo per sentire suo figlio più vicino?
«Sì, è un modo per sentirlo vivo. Incontrando tanti ragazzi con questa passione, sento che mio figlio vive nei loro cuori e che ci sarà per secoli. Lo piango in casa, di nascosto, ma provo sempre una grande gioia quando parlo di mio figlio a un giovane che sente il bisogno di un incoraggiamento, di parole di speranza. In questo mi aiuta la fede, che è la causa della mia pace interiore. Credo che solo la mano di un Dio potente potesse
inculcare nel mio cuore messaggi di pace, perché solo le persone che amano Dio possono confessarsi con lui».
Un messaggio conclusivo su questa manifestazione?
«Mi auguro che questo sia l’inizio di un lungo cammino fatto con serietà e con la passione per il calcio che accomuna questa gente, affinché questo sport possa cambiare e diventare di nuovo sano e bello, così come dovrebbe sempre essere».
Irene De Dominicis