L’ultimo volo
Fu in un tempo antichissimo, dove le leggende si fondevano alla realtà quasi fino a non poterle più distinguerle, quando il cielo si oscurò e dagli occhi bui delle nuvole cominciarono a cadere grandi lacrime di pioggia, nel frastuono dei lampi che coprivano ogni parola, ogni suono, quasi dovesse essere l’ultimo giorno del mondo.
Il piccolo Lucas giocava in silenzio nella sua piccola capanna di legno costruita tra gli alberi, in mano pochi soldatini e un castello maestoso di cartone che con la fantasia diveniva scenario di epiche battaglie, mentre tutto intorno il temporale urlava sui campi verdi d’una prematura primavera, ed il cielo nero sembrava ingoiare ogni cosa.
Le sue mani delicate davano vita ai temerari soldatini, mentre con i suoi occhi grandi e scuri guardava oltre la minuta finestrella, attraversata da un vento impetuoso, e tremava dalla paura per quel temporale che sembrava voler rapire anche lui nella sua furia.
Sperava con ansia crescente che quel suono battente di gocce si fermasse all’improvviso e dalla piccola finestra ritornasse la luce del sole a squarciare le nubi e il loro buio sipario.
Aveva soltanto dieci anni, e nel fragore dei tuoni riusciva a percepire un qualcosa di terribile, un presagio di sventura che si leggeva nell’aria fredda e cupa, mentre il giorno cominciava a declinare e il pensiero di casa diveniva sempre più preoccupante.
I minuti passavano lenti e con essi si amplificava quell’ansia, il pomeriggio s’attardava già dietro le colline, e Lucas non sapeva più cosa fare, i suoi soldatini erano ormai immobili sul pavimento ed egli era inginocchiato alla finestra, muto e spaventato, a guardare con terrore quel temporale che sembrava non finire mai.
Pensò ad Estel, la sua compagna di giochi, occhi di mare e capelli di sole, l’unica sua vera amica, la conosceva da quand’era nato e con lei aveva imparato cosa fosse la vita ed il suo incredibile viaggio, ricordò con una strana malinconia tutti i momenti felici passati insieme e la rivide sorridente sulla sua altalena di edera mentre lui la spingeva sempre più in alto verso il sole.
Pensò a quando l’aveva lasciata poche ore prima per andare alla capanna, e ricordò la sua perplessità per quel cielo nero che non prometteva nulla di buono, “Non preoccuparti, non pioverà” le aveva detto per rassicurarla mentre si incamminava lungo il viottolo di pietra, e lei alla finestra, come una madre, ad osservalo, come faceva sempre, con il visino pensieroso e dolce, seguendo i suoi piccoli passi, come per proteggerlo.
Ora credeva che fosse ancora lì, alla stessa finestra, a guardare quell’enorme temporale, preoccupata per Lucas, con la voglia di raggiungerlo per non farlo sentire solo.
Mentre era assorto nei suoi pensieri in quel frastuono di pioggia gli sembrò di sentire un richiamo, una voce sottile che proveniva dalle radici dell’albero; era una quercia enorme, solitaria in un vasto campo di grano, con grandi tentacoli che si diramavano dal fusto e attraversavano il suolo, segnandolo come le rughe su un viso anziano, sulla quale il nonno gli aveva costruito quel piccolo rifugio, la sua dimora segreta dove poteva giocare al di fuori del mondo.
Quel suono lo ridestò dalle sue paure, si alzò in piedi e piano sporse il capo dalla finestra per guardare giù, non riusciva a vedere nulla ma sentiva distintamente quel flebile lamento, aguzzò lo sguardo, sporgendosi ulteriormente ma la capanna era troppo alta per poter distinguere cosa ci fosse lì sotto.
Il suo cuore si riempì di ansia, non era certo un’invenzione del suo udito ciò che aveva percepito, e doveva assolutamente accertarsi di cosa fosse; in quel preciso attimo tutte le sue preoccupazioni svanirono e prese coraggio, d’istinto aprì la porticina della capanna e prese a discendere i gradini della scaletta di legno ricavata tra i rami, la pioggia iniziò a bagnarlo, impregnando in poco tempo la sua maglietta di cotone e il suo pantalone bianco di lino, ma lui non se ne curò e continuò a scendere fino a raggiungere il terreno.
Si guardò intorno, mentre i suoi capelli neri colavano d’acqua e cercò di focalizzare lo sguardo in quel pantano di foglie e fango, che era divenuto il campo, ma non riuscì a vedere nulla; guardò con più attenzione girando in cerchio su stesso mentre la pioggia cadeva copiosa sul suo piccolo corpo, ormai completamente bagnato, si scostò i capelli fradici dalla fronte e continuò a cercare disperatamente fin quando non si arrese, credendo di aver sentito male; in quel momento abbassò lo sguardo e gli fu evidente in quale stato fossero i suoi vestiti e le sue scarpe, la paura lo rapì di nuovo, un vento freddo s’alzava facendolo rabbrividire mentre la pioggia continuava a cadere risuonando sulle foglie della quercia quasi fossero tamburi.
Si sentì sconfitto e impotente ed improvvisamente solo, mentre la luce cominciava a scarseggiare e le ombre prendevano il dominio dei campi.
Si avvicinò di nuovo alla scaletta per risalire sulla capanna quando quel suono si ripropose alle sue orecchie, subito si voltò e cercò di capire da dove provenisse, fu allora che notò un movimento accanto a delle foglie, si avvicinò e con stupore vide nel terreno un piccolo passerotto che pigolava lentamente.
Era caduto di certo per la pioggia incessante ed era rimasto riverso sul terreno con le ali nel fango, come crocifisso al terreno, e le zampette all’insù che si dimenavamo ritmicamente nel tentativo di riuscire a girarsi; Lucas si inginocchiò su di lui e dolcemente lo prese con la mano destra per rimetterlo in piedi; era completamente bagnato, le sue piume screziate di marrone si erano fatte pesanti per l’acqua ed il fango e le sue ali non riuscivano ad aprirsi; Lucas lo avvicinò al viso abbracciandolo con la sua manina ed il passerotto cinguettò brevemente, il suo cuore si riempì di tenerezza vedendo quel piccolo volatile tremare nella sua mano per il freddo e risolse di doverlo portare nella capanna per farlo asciugare e ripararlo dalla pioggia.
Con nuovo entusiasmo risalì la scaletta con il passerotto infilato in una tasca del pantalone e giunto su lo liberò sul pavimento mentre con una tovaglia di cotone cercava di asciugarlo, il passerotto riusciva a stento a stare sulle zampette e cinguettava piano mentre Lucas lo accarezzava delicatamente con la tovaglia; il temporale intanto ruggiva fuori dalla finestra e non accennava ad attenuarsi, ma questo ormai non lo preoccupava più, tutti i suoi pensieri e le sue attenzioni erano rivolte al passerotto e alla speranza che potesse di nuovo volare.
Nella foga del momento aveva addirittura dimenticato che anch’egli era bagnato fradicio, non aveva nulla per asciugarsi né abiti per cambiarsi, mentre la sera s’approssimava minacciosa e il ritorno a casa era sempre più improbabile.
Lucas non si perse d’animo, era come rapito da quel passerotto e da quella strana avventura, pensò che forse era destino che lui si trovasse sulla capanna nel bel mezzo di quel temporale altrimenti l’uccellino sarebbe morto di sicuro; quel pensiero lo riempì di orgoglio e soddisfazione.
Prese un po’ del suo panino per la merenda e ne fece piccole briciole da dare al passerotto, stappò un vecchio barattolo e nel tappo rigirato mise un po’ d’acqua da dare all’uccellino, disfece il suo castello di cartone, senza rimpianti, e costruì un riparo sicuro dove il passerotto potesse riprendere le forze, e con un coltello ricavò delle piccole feritoie sull’involucro per fare entrare l’aria e la luce senza che il passerotto subisse la corrente che veniva dalla finestra, poi si inginocchiò accanto a quella gabbietta di cartone e mangiò lentamente la sua cena.
La sera era discesa silenziosa sulla grande quercia e sui suoi piccoli abitanti, in un attimo il buio avvolse ogni cosa nel silenzio dei campi mentre la pioggia si diradava lentamente e la notte con il suo manto tenebroso dominava la campagna.
Nella capannina di legno il passerotto mangiava lentamente le briciole mentre le sue piume riprendevano volume e le sue ali si alleggerivano pian piano, Lucas era accanto a lui, una strana stanchezza lo attanagliava, nei suoi vestiti ancora zuppi d’acqua, mentre la fronte gli scottava sempre più, ora era lui a tremare di freddo e di febbre, fin quando i suoi occhi si chiusero e cadde in un sonno profondo di incubi e misteri.
Passarono ore lunghe come anni nella buia capanna di legno in cima alla quercia, e la notte vegliò sul sonno febbricitante di Lucas, fin quando una luce tremolante alla finestra lo ridestò, «Lucas, Lucas sei qui?» urlò una voce familiare, Lucas aprì appena gli occhi e vide il nonno con una fiaccola in mano che gli si avvicinava preoccupato, «Lucas ma che cosa ti è successo?» gli chiese prendendolo teneramente tra le braccia, gli mise una mano sulla fronte e si accorse che scottava, «Nonno, devi prendere anche il passerotto!» accennò con voce flebile Lucas richiudendo gli occhi, «Quale passerotto?» gli chiese confuso, «Il passerotto che ho salvato! E’ nello scatolo!» gli spiegò il bambino.
Il nonno voltò lo sguardo e vide quella scatola di cartone, adagiò Lucas sul pavimento con la schiena contro il muro ed la alzò, sul pavimento c’erano delle briciole di pane e un coperchio di confettura pieno d’acqua, «Ma qui non c’è nessun passerotto!» esclamò riprendendo Lucas tra le braccia, «Non è possibile!» controbatté il bambino con la voce che gli strozzava in gola, «Sarà volato via!» concluse il nonno, preoccupato dalla febbre alta del bambino, e ripresa la torcia lasciò la capannina con il bambino in braccio discendendo piano la scaletta.
La notte aleggiava come un fantasma sui campi, si udivano nelle ombre versi strani e spaventosi, in quell’immenso buio si intravedevano soltanto i graffi di luce della fiaccola del nonno, che con passo deciso stava riportando a casa Lucas, il bambino era abbandonato tra le sue braccia, vinto dal freddo e dalla febbre, ma il pensiero di quel passerotto non riusciva ad abbandonarlo, non poteva spiegarsi come avesse potuto volare via ancora bagnato ed infreddolito senza che lui si accorgesse di nulla.
Dopo una mezz’ora, Lucas giaceva nel suo letto con una candela sul comodino a lottare contro il buio, e bende fredde sulla fronte per lenire la febbre alta, era sfinito e spaventato, i suoi occhi si chiusero da sé.
Passò una settimana di cure e riposo assoluto, prima che Lucas potesse rialzarsi dal letto, ma in quella sosta forzata non fece altro che pensare alla capannina sulla quercia e a quel piccolo passerotto che era riuscito a salvare, era certo che non poteva aver immaginato tutto, e gli sembrava quasi di sentire dalla finestra il suo cinguettio felice, ora che poteva di nuovo volare libero.
Scese dal letto in una calda mattina di maggio, quella settimana a letto lo aveva comunque debilitato e non vedeva l’ora di poter correre di nuovo nei campi, uscì sulla veranda di pietra, un sole caldo inondava ogni cosa, Estel era lì sotto ad aspettarlo, i suoi capelli rossi brillavano nell’oro della luce quasi fossero filari intrecciati di lucciole, gli sorrise dolcemente, lui scese di corsa le scale e la abbracciò. Mano nella mano giunsero alla capannina di legno, salirono la scaletta e sedettero tranquilli affianco a quelle poche briciole e quel cartone trasformato in gabbia, Lucas la guardò negli occhi, in quegli occhi luminosi e teneri, e le raccontò la storia del passerotto.
«Sono certa che sarà volato via felice di poter spiccare di nuovo il volo!» le disse la bambina, affascinata dal racconto, «Spero tanto che sia così!» rispose Lucas con un’accennata malinconia per non aver potuto salutare il suo piccolo amico.
Il giorno passò in fretta tra parole e sorrisi, poi i giorni divennero anni e gli anni decenni, quella bambina dolce divenne una donna e Lucas un uomo grande e forte, e rimasero insieme per sempre, la loro tenera amicizia divenne amore, un amore lungo quanto la stessa vita, le stagioni si susseguirono sempre più velocemente, una dopo l’altra come una giostra impazzita lungo i binari del tempo, fin quando l’estate dell’esistenza non cedette all’autunno e all’ineluttabile inverno di tutte le cose.
Una mattina Lucas si svegliò, e nel dolce viso di Estel, segnato dagli anni e dai pensieri, senza che la dolcezza la potesse mai abbandonare, lesse l’ombra di quell’inverno, respirava a fatica e le forze la stavano abbandonando; il cuore gli scoppiò nel petto, non aveva mai immaginato che un giorno quell’inverno avesse potuto raggiungere anche lei, la accarezzò piano guardandola negli occhi, con la speranza che quella fosse soltanto una giornata di pioggia che avrebbe lasciato di nuovo il posto al sereno.
«Non preoccuparti amore mio, domani starai meglio!» le sussurrò all’orecchio con la voce rotta dall’emozione, lei gli sorrise come faceva da quand’era bambina e lo accarezzò piano sul viso come per rassicurarlo.
Non si alzò più da quel letto, si susseguirono i giorni e i medici, i cieli azzurri corsero alla finestra uno dopo l’altro nel fiorire lontano dei campi e le speranze tramontarono piano come il sole delle sere di giugno cala ad ovest dietro le colline d’alberi ed erba.
Una mattina serena Estel scivolò piano con la mano sulle dita di Lucas che le dormiva accanto, «Devo proprio andare!» gli disse pacata con le lacrime agli occhi, Lucas si ridestò come da un incubo «Non dire queste cose, io non posso vivere senza di te», le disse alzandosi di colpo e guardandola negli occhi, «Lo so ma questa è la mia ora, lo sento e tu non puoi farci nulla, non c’è più tempo per me!» gli rispose come salutandolo, e nei suoi occhi c’era la stessa dolcezza di settant’anni fa.
«Non puoi lasciarmi qui, nulla ha un significato senza di te, non puoi andare via!» la implorò con un nodo in gola, tendendole forte la mano.
«Lucas non devi fare così, noi due siamo le persone più fortunate del mondo, abbiamo vissuto la vita dividendola nel cuore e nell’anima senza che nulla potesse dividerci, ma ora io sono così stanca, la sabbia della mia clessidra è ormai dispersa tutta nel vento» gli disse teneramente mentre grandi lacrime le solcavano il viso.
Il respiro si fece affannoso, «Non piangere, ti prego» gli sussurrò flebilmente, chiudendo i suoi grandi occhi, e Lucas sentì la sua mano abbandonarsi lentamente, una fiamma gli bruciò l’anima, il terrore di non poter vivere senza di lei lo attraversò come un grido, «Voglio venire via con te!» urlò disperato tra le lacrime, abbracciandola con tutte le sue forze, mentre lei non respirava più ed era rimasta lì addormentata per sempre, con un dolce e pacato sorriso sulle labbra.
Un cinguettio alla finestra destò l’attenzione di Lucas, si voltò di colpo, un passerotto dal piumaggio marrone screziato era fermo sul davanzale e lo fissava, non credette ai suoi occhi nel rivedere quell’immagine ingiallita dalla memoria, una follia e un dubbio lo assalirono; non poteva essere lo stesso passerotto, erano passati lunghissimi anni, ma un desiderio lo vinse, «Voglio volare via con lei!» lo implorò con le lacrime che gli graffiavano il viso.
Il passerotto cinguettò e lo fissò dritto negli occhi, Lucas ricambio lo sguardo e sentì improvvisamente una strana leggerezza, una luce soffusa lo avvolse quasi fosse fatto d’aria, vide il cielo ed Estel che saliva larghi gradini di nuvole, la chiamò a gran voce e lei si voltò, era la bambina con i capelli di sole e lui il bambino con gli occhi profondi, «Aspettami Estel» urlò tra le nubi nell’azzurro cominciando a correre, lei spalancò le braccia e sorrise.
La luce si spense ed il silenzio avvolse ogni cosa, quando i vicini giunsero in casa trovarono Lucas ed Estel abbracciati in un sonno profondissimo, un sonno di secoli che sfugge all’umana comprensione, si erano addormentati insieme così come erano vissuti, e sul davanzale un piccolo passerotto immobile, addormentato anch’esso nello stesso sonno.
Nessuno lo seppe mai, ma quel piccolo uccellino aveva ricambiato a Lucas il miracolo di tanti anni prima e gli aveva donato il suo ultimo volo…
Massimo Lo Pilato