L’ULTIMO AUTUNNO
Al dolce ricordo di mio padre e alla vita che mi ha insegnato
Il vento fresco di settembre mi ha svegliato presto stamattina, negli anni ho imparato a riconoscere il mutare delle stagioni dal soffio lento dell’alba. I vecchi conservano nel cuore la memoria del mondo, ad essi è affidato il testimone nell’incessante corsa della vita e nell’attimo in cui devono cederlo alba e tramonto sono un unico frammento di tempo.
Il silenzio di questa mattina è il silenzio degli anni che si sono accumulati sulla mia corteccia ruvida, la pioggia mi ha portato il refrigerio del pianto delle nuvole, il sole mi ha piegato e vinto, l’urlo della tempesta mi ha scosso nel profondo, avviluppando i miei rami come fossi un bambino rintanato sotto il letto in attesa che i lampi cessassero.
Sono giunto senza accorgermene alla fine dei miei giorni, senza un suono, le mie foglie patiscono l’agonia di radici non più solide, la mia anima verde svanisce senza più la forza di generare frutti.
Sono un albero d’ulivo e da cent’anni respiro su questo campo alla sommità della collina, la villetta rosa dorme di fronte a me il sonno decennale dell’abbandono, poco più in là c’è il ricordo della vecchia masseria, falciata in due dalla scure del terremoto e vinta dall’edera che l’avvolge come un sudario.
Il tempo ha congelato questo luogo come un monumento nelle sfere di cristallo dei souvenir, questa terra infinita ha conosciuto l’estasi della gioia e l’arsura del dolore, ha visto mutare il mondo e rinchiudere la semplicità nella campagna in una foto ingiallita da conservare sul comodino.
Oggi ho pensato al mio amico e alla sua strana assenza. Lo ricordo bambino con i calzoni corti sulle spalle del padre per non sporcarsi i piedi e lo rivedo crescere, diventare un uomo con il sorriso di chi sfida la vita e la rispetta, con la forza di chi ha la terra e le vigne che scorrono nel sangue, con la dignità di chi scala un monte ma non pensa di averlo vinto.
Quando lo vidi la prima volta era un cucciolo in una culla di panni in braccio alla madre che portava il bucato a sbiancare alla fonte.
Sono passati quasi ottant’anni da allora e del festoso rumore di quella famiglia non resta più nulla.
Pian piano che cresceva, il mio amico si avvicinava circospetto al mio campo, poi d’improvviso si afferrava lesto al mio tronco, il suo abbraccio divenne ben presto il battito del mio verde cuore.
Nelle notti d’estate sedeva a terra addossato al mio fianco, a guardare il cielo; allora non c’erano luci piantate sulle strade ad offuscare la vista delle stelle, nel silenzio surreale del nostro legame il cielo era uno scolapasta di ceramica con un’intensa luce sul retro.
Il mio amico aveva fratelli e sorelle, una madre paziente ed un padre dal volto bonario; la sera cenavano insieme attorno ad un bicchiere pieno di lucciole a sfatare le ombre, le fatiche del giorno divenivano sorrisi e sangue di vite nei bicchieri.
Ma anche quel tempo svanì. Gli anni andarono su rotaie a senso unico, la tavola iniziò a svuotarsi. Tre fratelli riempirono valigie con pane e speranze a scoprire terre lontane; li rividi dopo decenni mutati in turisti, con in tasca la fortuna che avevano cercato ma con la miseria nel cuore di ciò che avevano perduto.
Le sorelle, una dopo l’altra, indossarono vestiti bianchi e trovarono nuove case al di là della collina, una donna è un seme agitato dal vento e dove trova un nuovo campo è costretta a germogliare; il padre, intanto invecchiava sulla veranda, ascoltando la voce del vento che soffiava memorie.
Anche il mio amico incontrò l’amore e costruì una nuova casa ma non lasciò mai la sua terra. Lo vidi un giorno passeggiare nei campi di grano accanto ad una donna dagli occhi profondi come un lago, le accarezzò il ventre gonfio, come la terra quando è gradiva di germogli, e seppi in quell’istante che la sua vita stava generando nuove primavere.
Era diventato un uomo affermato, un uomo di città, di quelli che non sono costretti a spezzarsi la schiena per guadagnarsi il pane, eppure tornava sulla collina nei pomeriggi che conciliano il riposo; discorreva pacatamente con i genitori sulla veranda, poi scendeva nei campi e passava a salutarmi, la sua mano sul mio tronco mi ricordava d’esser vivo. Svestiva i panni del professionista e tornava il ragazzo che accarezzava le olive, trasformandole in oro fluido. Lo osservavo nelle vigne, lustro dopo lustro, a riempire cassette e a portarle paziente nella cantina; tornava giornalmente a visionare le botti, a respirare il profumo del tempo perduto, sapevo che con quelle bottiglie avrebbe riempito calici di memorie, in onore del padre che si era addormentato per sempre.
Aveva la maledizione della terra ed il rimpianto di vederla morire; a quelli che lo accusavano di trascorrere la vita spendendola per gli altri, rispondeva con una smorfia che non conosceva altro modo di viverla. I suoi anni sfumarono a cercare di guarire le ferite dei suoi cari, ma inevitabilmente, pensando esclusivamente al bene degli altri, quelle ferite se le incise sul cuore.
La pioggia ha scrosciato impetuosa in questi anni tumultuosi e ha fiaccato la tenacia delle mie radici. Ho sempre pensato che gli alberi afferrassero la terra e, come due immense mani a culla, la compattassero così da non disperderla nel cosmo in miliardi di zolle; il mio amico ha stretto tra le mani questo luogo e la sua alchimia così che non potesse disperdersi in un’ombra senza memoria.
Mentre i suoi figli crescevano e prendevano il loro posto nel mondo ho visto i suoi capelli innevarsi, la sua schiena piegarsi al peso del tempo, ho visto affidare la certezza dei suoi passi al sostegno di un bastone con il viso stanco, scavato da travagliati pensieri ed il dolore di quella terra, che invecchiava insieme a lui.
C’ho pensato stamattina perché da molto tempo mi manca la carezza della sua mano e la sua auto blu non compare più al cancello del vialetto d’edera.
Sono così stanco e i miei rami sono diventati un inutile groviglio senza frutti, avrei bisogno anch’io di un bastone che mi ridonasse la fierezza di un tempo. Ho la vista annebbiata e non distinguo più il sogno dalla veglia, eppure, proprio stamattina, ho rivisto il mo amico al limite del vialetto, è venuto a piedi, le mani in tasca ed il passo sicuro degli anni giovanili.
Mentre si avvicinava con la gioia inaspettata che ti dona un miracolo, ho visto i suoi capelli annerirsi ed il suo corpo ringiovanire sempre più; giunto di fronte a me, era di nuovo il bambino dai capelli ricci con i calzoni corti.
Per la prima volta non l’ho guardato dall’alto ma dritto negli occhi, perché anch’io non ero più un albero ma un’esile piantina appena nata in una culla di terra, lui mi ha sorriso e chinandosi mi ha preso tra le mani.
Solo in quel momento ho realizzato che intorno a noi tutto era svanito, c’era soltanto campagna a perdita d’occhio ed un sole rassicurante a scaldarci il viso.
Il mio amico mi ha accarezzato piano e si è avviato in quell’oceano di grano dorato, sorreggendomi con le sue mani, per lasciare alle nostre spalle l’ultimo autunno.
Quali opache illusioni concede la realtà, ho pensato sorridendo, di quest’infinito campo ondeggiante nella brezza profumata e della nostra passeggiata verso il sole, il resto del mondo osserverà soltanto un funerale ed un albero secco.
Massimo Lo Pilato