Giuseppe Moscato, da 50anni alla direzione delle funi, racconta la «tirata» del Carro
La «tirata» del Carro è l’evento dell’anno che tutto il paese aspetta. E’ sempre una gioia l’arrivo del sabato precedente alla terza domenica di settembre: finalmente si tira! Eppure pochi sanno cosa c’è dietro, anzi, cosa c’è dentro il Carro.
Per questo motivo abbiamo intervistato Giuseppe Moscato, che da più di cinquant’anni si occupa della conduzione dell’amato Carro, nel lungo e arduo percorso che lo porta dalla collina di ‘Santa Caterina’ al borgo del paese. Meticoloso e severo come pochi, il signor Moscato ci parla di come questa tradizione sia mutata nel tempo e di quanto sia difficile ripeterla ogni anno.
Lei trascorre l’intera «tirata» all’interno del Carro. Può spiegarci qual è il suo ruolo e da quanto tempo lo riveste?
«Mi occupo della direzione delle funi dal lato sinistro. Lo faccio dal 1961, anche se tiro il Carro da quando avevo sei anni. Purtroppo la prima volta che ho diretto le funi non sono stato molto fortunato: il ’61 fu l’anno in cui il Carro cadde. Negli anni successivi, fortunatamente, è andata meglio».
Come ci si sente a vivere la «tirata» da lì? Quali sono le emozioni?
«L’emozione è la stessa di ogni anno, anche se mi accorgo che nell’arco degli anni la tirata è cambiata. Prima era vissuta come una grande processione, c’era più accortezza e devozione. Negli ultimi dieci anni è diventata una sfilata folcloristica che si trasforma inevitabilmente in disordine e caos. Mi rendo conto che si tratta di un momento di festa per tutto il paese e che bisogna divertirsi, ma con cautela, visto l’equilibrio instabile del Carro».
Quanto tempo e quante persone occorrono per la costruzione?
«Per il montaggio occorrono quindici giorni, mentre per lo smontaggio cinque. Di solito c’è bisogno dalle otto alle dieci persone».
Sa dirci quali sono i passaggi più difficili nella costruzione e nella «tirata» dell’obelisco di paglia?
«Nella costruzione, il passaggio più complicato è l’alzata della cupola, posta su un lungo palo centrale. Si tratta di un gioco di equilibrio da entrambe le parti. Durante la «tirata» il punto delicato si ha nella discesa davanti la casa di Tecce, oltre a vari ostacoli da superare: ad esempio il passaggio dal terreno al cemento di fronte la caserma dei carabinieri. Le ruote ne risentono. Per non parlare dei pali, sempre di fronte alla caserma, e del poco spazio lasciato alle funi. Le persone si accalcano impedendo l’esatto transito dell’obelisco, rendendo difficile un compito già di per sé non facile. Un’altra cosa da sottolineare è il coordinamento, che spetta a Giotto Faugno. Per questo ne approfitto, oltre a fare un appello ai tutori dell’ordine, anche agli addetti ai buoi: ai primi dico di gestire meglio l’affluenza della gente, ai secondi di non prendere iniziative di propria volontà. Le decisioni spettano a Giotto Faugno».
Il Carro di Mirabella Eclano, venticinque metri d’altezza e venti tonnellate di peso, è un obelisco di paglia con struttura in legno di forma piramidale a base quadrangolare, fissato su un carrettone agricolo. Dai quattro spigoli si estendono modiglioni da cinque a trenta centimetri. A conferirgli la flessibilità necessaria ad un tale utilizzo, sono le ventitré travi, di cui venti laterali e tre centrali, che formano i sette registri, cioè dei piani rientranti che si assottigliano dal basso verso l’alto, in modo che gli ultimi tre formino la cupola, alla cui cima figura la statua della Madonna Addolorata.
Si va dal primo registro, alto sei metri, ampio venti metri quadrati e costituito da settantasei elementi, all’ultimo, alto un metro e mezzo e con cinque elementi. Ad essi sono legati o bullonati novantanove pannelli in paglia, intrecciati a mano con gli utensili più semplici e tradizionali.
Sono i contadini a donare i covoni di grano, i cui steli vengono trasformati in «treccioline», dopo essere stati ammorbiditi nell’acqua per qualche giorno. Le «treccioline» sono elementi a tre steli, «trecce», con variazioni da quattro a ventuno elementi, «laccetti», o due e cinque culmi. Oltre alle «treccioline» vi sono le «impagliate», realizzate con steli cuciti a schiera. Gli intrecci sono legati o cuciti su basi di paglia «spaccata», ottenuta con una composizione di culmi aperti, per creare i disegni e le raffigurazioni secondo uno stile del tardo barocco, quasi Roccocò. Legato o inchiodato su telai di legno, il tutto viene bullonato ai registri. Solo così, il lavoro può dirsi compiuto e la «tirata» può avere inizio.
Irene De Dominicis