Mister Ranocchio
Il breve racconto, presentato di seguito, ha ottenuto il 1° Premio nella sezione Narrativa della XXXII Edizione del Premio Letterario Nazionale Il Portone di Pisa con la pubblicazione nel volume “I colori della solitudine” nella collana “Il Portone/Letteraria”.
MISTER RANOCCHIO
A mia figlia Dina e all’estenuante dolcezza dei suoi occhi
Ho sentito dire una volta che ci sono sogni impossibili, sogni che incontriamo in una notte qualunque e che ci inseguono in ogni istante della realtà, aggrappati alla nostra anima come un ricordo, sino a confondere la realtà stessa in un connubio inscindibile con la nostra fantasia, riuscendo a cancellare la linea sottile tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, la linea ormai quasi invisibile che ci separa dal nulla.
Non ho memoria della mia nascita, molto probabilmente perché non sono mai nato, qualcuno decise per me che la vita dovesse rimanere soltanto un sogno, qualcuno che credeva di poter controllare la sua esistenza e inevitabilmente quella degli altri, qualcuno che vide due linee rosa su un test di gravidanza e non comprendendo quale infinito miracolo si celasse dietro quelle linee, corse a cancellarle in una buia sala d’ospedale.
Da quel giorno che cancellò il mio sguardo, che cancellò il mio viso, le mie mani tese alla scoperta della realtà ed ogni mio passo nel mondo, che fece svanire tutte le mie speranze e i miei giorni futuri, io vivo in un piccolo giocattolo di legno, uno di quei romantici sonaglini dipinti a mano, con un manico di un tenue colore verde pistacchio, una gabbietta intarsiata con dei campanelli di rame alla cui sommità vi è il sorridente visino di una rana.
Tutti alla fin fine fanno un sogno, per alcuni si tramuta inavvertitamente in un incubo, ma in un caso o nell’altro man mano tendono a rivestirlo di realtà, di attimi, di sensazioni, di ricordi.
Tra tutti i sogni che vagano tra le stelle come l’energia generatrice dell’universo, quello che sto per raccontarvi fu il mio sogno !
Non ricordo nulla dell’attimo che mi distaccò dal miracolo della crescita e della nascita, i ricordi in fondo svaniscono via via tra contorni che si stemperano sino a divenire pure sensazioni, un suono, un profumo, una flebile nota che svanisce nell’ombra del silenzio e riesce ad occupare l’intero frastuono della vita.
So soltanto che accanto alla sala operatoria, fredda e asettica, c’era un nido colorato e gioioso, popolato di bimbi che avevano appena dischiuso il loro sguardo sul mondo, e accanto ad una di quelle culle era adagiato quel piccolo giocattolo verde, un dolce dono per una nascita.
Non credo alla magia o meglio la vita fa di tutto per renderci scettici riguardo alla magia, eppure nel terribile istante in cui qualcuno decise che io non meritassi lo scorrere del tempo, nell’attimo impossibile del mio salto nel nulla, quel dolce giocattolo di un tempo perduto, accolse la mia disperazione e le mie preghiere, salvandomi dall’oblio e ospitando la mia anima ed il mio segreto.
Sono passati trent’anni da quel giorno vuoto, e infinito è stato il mio vagabondare tra le mani di bimbi sconosciuti; credo di poter dire con certezza di aver compreso la vita e l’innegabile mistero che la circonda, guardandola attraverso gli occhi dei bambini che mi tenevano stretto tra le loro mani accennando sorrisi al mio buffo viso.
Ho conosciuto tanti bimbi e sono stato regalato tante volte, tra parenti e amici, quasi nessuno avesse il coraggio di gettarmi via definitivamente; venivo soltanto messo via in qualche scatolone impolverato della soffitta fin quando un nuovo amico veniva a scoprirmi.
In tutti questi anni, nell’infinito silenzio che li ha contraddistinti ho pensato molte volte a mia madre, a dove fosse, a cosa stesse facendo della sua vita e se mai ripensasse a quel buio pomeriggio d’inverno che ci aveva divisi per sempre, pensavo a lei quando guardavo un bimbo che giocava con me abbracciato intensamente dalla madre e cercavo di immaginare quale incredibile emozione potesse provare in quel momento.
Avrei dovuto odiarla per la vita che mi aveva inconsapevolmente rubato ma ogni volta che provavo ad impormi un freddo distacco dalla sua figura, una grande malinconia mi attraversava come ci sorprende l’aria di pioggia delle mattine d’ottobre, che con la sua freschezza sembra avere la forza di attraversarci il corpo e impregnarci l’anima.
I giorni divennero mesi, e i mesi anni, la tecnologia e il progresso allungarono il passo relegandomi al ruolo di un oggetto malinconico e vecchio, infine fui ceduto per pochi centesimi ad un venditore ambulante insieme a molti altri giocattoli ormai desueti e portato in giro per feste e sagre con la speranza che qualche inguaribile nostalgico potesse acquistarmi.
Ricordo il frastuono delle feste, l’aroma di zucchero filato, la serie infinita di luminarie che impazzivano di colori e il fiume di persone che frugavano con le loro mani tra noi poveri giocattoli perduti in cerca di un nuovo amico.
Era una sera d’agosto, una sera come tante, la luna era un piatto d’alluminio nel cielo, mentre sonnecchiavo sulla mia bancarella quando il visino delicato e paffuto di una bambina mi si parò davanti, aveva pochi mesi eppure mi guardò con i suoi grandi occhi color dell’autunno accennando un tenero sorriso, quasi fosse riuscita a vedere oltre il mio povero corpo di legno, mi guardò incantata con la meraviglia che riescono ad avere nello sguardo soltanto i bambini, e, mentre il padre la teneva in braccio, mosse repentinamente le mani come se volesse afferrarmi, il padre sorrise prendendomi in mano e scrutandomi, poi chiese il prezzo al venditore e pagatolo mi ripose nelle manine della piccola che iniziò a scuotermi felice.
La bimba sorrise, il padre e la mamma sorrisero, e, benché nessuno potesse vederlo, sorrisi anch’io; il padre guardò la bimba negli occhi, stringendola tra le braccia e disse: «Ti piace il tuo nuovo amico ? Lo chiameremo Mister Ranocchio e con i suoi campanellini vigilerà sempre su di te e terrà lontano ogni pericolo !»
In quel momento sentii un tonfo al cuore, nessuno mi aveva mai dato un nome, fu un’emozione incredibile perché in quell’istante fui certo di avere un’identità, avevo sempre temuto di non essere ricordato da nessuno, poiché , se ci riflettete un attimo non si può ricordare qualcuno che non ha un nome; in quel momento, inconsapevolmente, il padre di quella bimba mi aveva regalato un presente ed un futuro, mettendo fine agli interminabili anni dell’attesa, dando un significato all’incredibile viaggio che avevo intrapreso trent’anni prima da quella sala d’ospedale.
Io e la bimba dagli occhi color dell’autunno diventammo inseparabili, quella notte stessa mi trovai a dormire accanto a lei, adagiato accanto ai suoi morbidi capelli castani, e mentre le ore della notte passavano io mi ritrovai a vigilare sul suo sonno nel buio della cameretta per non disattendere le aspettative del padre e per proteggerla da qualunque insidia.
I giorni passarono in fretta ed io la vidi fiorire come accade per gli alberi di pesco in primavera; ogni singolo giorno imparava qualcosa di nuovo, io la guardavo sorpreso mentre mi teneva tra le mani e mi accarezzava, quando mi agitava felice per il suono dei miei campanelli, quando tentava di pronunciare le prime sillabe, quando al fine dormiva stremata e di fronte alla sua dolcezza ogni cosa intorno sembrava inchinarsi al silenzio per permetterle di riposare.
Facemmo i primi passi insieme, lei scorrazzava per casa con me tra le mani ed il suono dei miei campanellini si diffondeva per le stanze; imparò a chiamare i genitori e nei loro sorrisi io vidi l’amore e la meraviglia che a me erano stati negati per sempre.
Erano passati tre anni dalla sera in cui la bimba dagli color dell’autunno mi aveva preso tra le sue manine, portandomi via dall’infinita morte della dimenticanza, tre anni così intensi e meravigliosi che a volervi raccontare bisognerebbe inventare parole nuove.
Ho sentito dire una volta, che ognuno ha un appuntamento con il destino e da quell’appuntamento dipende l’intero dipanarsi della nostra vita!
Il mio appuntamento con il destino avvenne in un giorno qualsiasi, un giorno caldo e assolato, baciato dai colori dell’estate.
La bimba giocava con la sua palla color lilla nel giardino di casa, tirava calci precisi e intensi, tenendomi per mano e lasciandomi scampanellare, la mamma e il padre conversavano tranquilli con un thé freddo tra le mani…
Fu un attimo, la palla imbucò precisamente il cancelletto uscendo in strada, la bimba avviò i suoi passettini per rincorrerla, un’auto sopraggiungeva ignara…
Un terrore glaciale mi avvinghiò il cuore, in quell’istante mi accorsi che la bimba guardava incantata la palla e procedeva meccanicamente mentre i genitori non si erano accorti di nulla, il mio cuore sembrò esplodere dalla voglia di volerli avvisare, mi sentii costretto in quell’inutile corpo di legno senza voce, senza un grido; la disperazione dell’impotenza mi pervase ed allora pregai, pregai di avere la forza di sfuggire alle sue manine per andare incontro all’auto e destare così la sua attenzione, pregai le stelle che tante volte avevo osservato dalla mia solitaria bancarella, pregai la luna e il suo dolce viso che sembrava sorridermi, pregai la vita e il miracolo che la sottende, di potermi sacrificare per il suo domani.
E fu allora che sentii una forza nuova attraversare il mio corpo di legno, e saltai più forte che potevo, saltai dalle sue manine, rotolando sull’asfalto verso i miei ultimi istanti.
I miei campanellini risuonarono in quel pomeriggio d’estate prima di schiantarmi sotto la ruota dell’auto, che frenò istintivamente, i pneumatici fischiarono, i genitori sobbalzarono dalla sedia con il cuore a mille, lanciandosi verso la bimba che, ridestata da quel fragore, era rimasta immobile a pochi centimetri dall’auto, osservandomi a terra ridotto in mille pezzi.
Il padre la strinse da dietro con le mani tremanti mentre la donna che era alla guida era scesa immediatamente e terrorizzata si sincerava delle sue condizioni, la mamma era poco più in là, inginocchiata per riprendersi dalla paura che l’aveva rapita.
La bimba dagli occhi color dell’autunno era rimasta impietrita, in quel frastuono di voci fissava il suo dolce sguardo su quel che rimaneva del suo amico di legno, mi guardò per l’ultima volta mentre una lacrima solcava il suo viso e disse «Mmm….mister ranocchio», il padre l’accarezzò dolcemente, consolandola e forse in cuor suo ripensò a ciò che aveva detto in quella sera d’agosto, quando si era augurato che io la proteggessi da qualunque pericolo.
Quell’istante per me fu infinito, quel repentino rotolare verso la fine ebbe per me la durata di un volo, la leggerezza di chi ha scoperto il mistero dell’enigma e lo guarda dal piedistallo di chi lo ha risolto, rividi mia madre e quella sala gelida d’ospedale, rividi tutti i miei bambini e la polvere silenziosa delle soffitte, rividi la magia delle sere d’estate e le bancarelle profumate di zucchero filato, e rividi lei, il suo viso delicato e sincero, i suoi grandi occhi e quel sorriso che avrebbe cancellato qualsiasi inverno, lei che mi aveva regalato l’emozione dell’amicizia ed il valore di un legame, lei che in un attimo vuoto si stava incamminando per l’unica strada dalla quale non vi è ritorno, la dolce bimba che avevo salvato sacrificando me stesso.
Non posso dire di essere morto in quel caldo pomeriggio, proprio perché non sono mai nato, ma prima che ogni cosa svanisse attorno a me e quegli occhi color dell’autunno divenissero pioggia e vento, ho avuto l’innegabile certezza di essere vissuto e di non essere vissuto invano…
Massimo Lo Pilato