Da Mirabella al Canada: la “storia” di Maria Caso
Questa volta a raccontarci la sua esperienza di “Mirabellana nel mondo” è Maria Caso, arzilla signora eclanese emigrata in Canada a soli 25 anni in cerca di un futuro migliore.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale l’Italia era un paese logorato dalla tragedia appena vissuta. Fu proprio in quel periodo che intere Comunità contadine delle zone collinari e montuose si svuotarono del tutto. Molte furono le persone che si trasferirono negli Stati Uniti, in Canada e nei Paesi del Sud America.
L’esperienza dell’emigrazione rappresentò per certi versi un dramma personale: arrivare in un paese straniero di cui non si conosceva la lingua, lo stile di vita e la cultura non era di certo compito semplice. Le storie di partenze ed abbandoni, di patimenti e di rimpianti, di avventure e speranze che si sono avvicendate in quel periodo, sotto le stelle di cieli diversi, sono state tante… Ed è proprio una di queste storie, quella della signora Maria Caso, che vogliamo raccontare.
Come mai ha scelto di lasciare Mirabella, suo paese natio, da giovanissima?
«Sono andata via da Mirabella nel 1952, a 25 anni. Mi ero appena sposata “per procura” dopo un fidanzamento di 9 anni, quando mio marito Gennaro mi mandò il così detto “atto di richiamo”. Lui si trovava a Montreal già da un anno, era partito in cerca di fortuna e, dopo una serie di lavoretti saltuari, aveva trovato un lavoro stabile presso una fabbrica di pellicce. Io, che avevo sempre vissuto in campagna con la mia famiglia, mi trovai dinanzi a una realtà completamente nuova, mi sentivo spaesata in una città così grande e così diversa dalla realtà che avevo lasciato in Italia. Per raggiungere il Canada ho affrontato un viaggio durato dodici giorni in nave più altri due giorni di treno. Quella partenza la ricordo bene: era la prima volta che vedevo il mare, il porto, una nave così grande e tanta gente che partiva con la speranza di un futuro migliore. Tanti pensieri riempivano la mia mente mentre con la mia valigia salivo su quella nave, così enorme ai miei occhi, che mi avrebbe portata in una terra sconosciuta e irta di difficoltà. L’unica cosa che mi dava forza e che mi rincuorava era il fatto di poter finalmente raggiungere mio marito».
Come ha affrontato questo lungo viaggio?
«Ricordo bene che partimmo di sera, insieme ad altri compaesani diretti anch’essi in Canada. Su quella nave viaggiavano intere famiglie di italiani con la speranza di poter scappare dalla miseria che aveva lasciato la guerra e trovare un lavoro dignitoso e sicuro. Era la prima volta che lasciavamo il nostro paese alla volta di un paese straniero, per giunta così lontano. Non potrò mai dimenticare i volti stanchi di quegli uomini e di quelle donne, e i pianti dei bambini stanchi ed affamati. Quando la nave partì fui colpita da una forte emozione mista ad una sottile paura che mi penetravano nel cuore… non riuscivo ad immaginare dove quel viaggio così lungo mi avrebbe portata. Mio marito Gennaro, nelle sue lettere, mi aveva tanto parlato del Canada, dei suoi palazzi, dei suoi negozi in cui si poteva trovare di tutto, dei tanti italiani che si trovavano lì… ma una volta salita su quella nave iniziai a sentire un leggero tremore che mi accompagnava. Durante la prima notte di viaggio non riuscivo a dormire tanta era l’emozione. Arrivata finalmente a destinazione, a Montreal, fu tanta la mia meraviglia nel vedere che, nonostante fosse primavera, lì c’era tanta neve da far paura. Rimasi a bocca aperta nel vedere quelle macchine lunghe che mi passavano davanti, tutte quelle case fatte di legno, e nel sentir parlare intorno a me lingue straniere e non capire nulla. Mi sentivo un pesce fuor d’acqua».
Quindi l’impatto non fu dei più semplici?
«Beh, no! Non conoscevo nessuno, non conoscevo la lingua… non riuscire a comunicare, a farsi capire è stata la cosa più brutta. I primi tempi, infatti, sono stati molto duri. Riuscire ad abituarmi anche a quelle condizioni climatiche non è stato semplice: gli inverni lunghi, freddi, la neve…Poi, pian piano ho incominciato ad ambientarmi, ho iniziato ad imparare la lingua e ho trovato un impiego presso una sartoria nella quale lavoravano tantissimi italiani. Con tanto lavoro e sacrificio io e mio marito riuscimmo ad acquistare una casa nostra. Raggiunta una certa stabilità economica decidemmo di “richiamare” alcuni dei nostri fratelli e nipoti per cercare di aiutarli date le difficili condizioni in cui versavano le nostre famiglie di origine. Li abbiamo accolti e ospitati con immenso piacere. Io e Gennaro, purtroppo, non abbiamo avuto figli, ma abbiamo cresciuto i nostri nipoti come fossero tali. Ricordo con tanta gioia che ad accompagnarli all’altare nel giorno del loro matrimonio siamo stati proprio io e mio marito».
Lei e suo marito tornavate spesso a Mirabella?
«Per i primi cinque anni le condizioni economiche non lo permettevano. Dopo aver trovato un po’ di stabilità, ogni anno, puntualmente facevamo ritorno a Mirabella per le vacanze estive. Io e mio marito Gennaro ci siamo sempre sentiti molto legati alla nostra terra natia. La Comunità mirabellana in Canada era molto nutrita, nessuno di noi ha mai dimenticato le proprie origini. Ogni anno, a settembre, in occasione della festa del Carro tutti noi facevamo una colletta per la ‘Madonna dell’Addolorata’ e la mandavamo a Mirabella. Il giorno della festa ci riunivamo tutti insieme nel così detto “quartiere italiano” e celebravamo una messa in suffragio della Madonna. Era un modo per sentirci tutti uniti e per respirare l’aria di festa del nostro paese che, ahimè, era così lontano».
Dopo 42 anni in Canada, dopo una vita di lavoro perché la decisione di tornare definitivamente a Mirabella?
«Nel 1994, dopo 42 anni trascorsi fuori, abbiamo sentito il bisogno di tornare nella nostra terra. A dire la verità, fu mio marito ad insistere perché tornassimo definitivamente a Mirabella, io mi ero ambientata ormai talmente bene che quasi mi dispiaceva lasciare quella terra che tanto ci aveva dato. Ad ogni modo, dopo una vita di lavoro, siamo stati felici di tornare nei luoghi che avevo visto con gli occhi di una ragazzina. Ho sempre amato la vita salutare e tranquilla della campagna, infatti, ancora oggi, nonostante l’età, mi tengo attiva facendo l’orto, allevando conigli, galline…insomma, cerco di stare sempre in movimento! Nonostante la perdita del mio caro marito, avvenuta nel 2007, non mi sono persa d’animo e ho sempre cercato di andare avanti al meglio».
Quindi, ripercorrendo la sua storia da emigrante, è contenta del suo vissuto?
«Sicuramente non è stato facile, come ho detto. Di certo non ho rimpianti. Sono partita che ero una ragazzina, ingenua e piena di belle speranze, ma devo dire che tutto sommato sono stata fortunata: ho avuto una vita soddisfacente, un marito sempre al mio fianco che mi ha voluto bene, tanti nipoti che per me sono stati come figli… quindi non posso che essere contenta. Il Canada mi ha dato tanto e ha rappresentato tanto per me: è li che ho trascorso una parte significativa della mia vita. Ma in cuor mio non ho mai e poi mai dimenticato da dove sono partita: amo l’Italia e amo Mirabella. Nonostante io abbia la cittadinanza sia italiana che canadese, non ho mai smesso di sentirmi mirabellana nell’animo».
Fabiola Genua